La legge italiana tutela le imprese contro i nuovi fenomeni di contraffazione del marchio. Per rispondere a questa domanda abbiamo partecipato a un interessante convegno svoltosi all’università di Parma.
Si è recentemente svolto a Parma l’annuale Convegno nazionale di Diritto industriale, organizzato dall’Università degli studi parmense, durante il quale specialisti del diritto, economisti e rappresentanti delle imprese si sono confrontati sul tema “Il valore dei marchi”. Fra i vari aspetti dell’argomento presi in esame, proponiamo all’attenzione dei nostri lettori quelli più significativi, cominciando dall’intervento del Prof. Avv. Cesare Galli, dedicato alla contraffazione dei marchi, dal titolo “Marchi, forme e denominazioni di origine: la “nuova” contraffazione e gli strumenti di difesa per le imprese”.
Fino a qualche tempo fa il fenomeno della contraffazione di marchio riguardava l’uso di segni simili al marchio stesso da tutelare per prodotti di ugual genere o di generi affini: si trattava essenzialmente di un problema di confondibilità sull’origine.
Oggi siamo di fronte a nuovi fenomeni di contraffazione, spesso nati all’interno del nostro mercato, ma molto accentuati dall’importazione di prodotti realizzati a basso costo nei Paesi dell’estremo oriente. Ecco i casi di contraffazione più frequenti:
• l’uso di marchi identici per prodotti dello stesso genere (o addirittura apparentemente identici, ma di qualità più scadente) che però vengono venduti attraverso canali distributivi che escludono l’esistenza di un pericolo di confusione. Questa è forse la contraffazione più comune per gli articoli del mondo della moda e dei beni di lusso;
• l’uso di marchi sempre identici a quello imitato, ma per generi merceologici diversi, così che un pericolo di confusione per il pubblico appare escluso;
• l’uso di segni che richiamano il marchio, ma lo fanno con modalità tali (come la parodia) da indurre il pubblico a escludere che possano provenire dall’impresa titolare del marchio imitato, o che siano stati posti in commercio con la sua autorizzazione;
• l’imitazione non tanto del segno, quanto dei suoi elementi di contorno, quali la confezione (il così detto look alike), anche in questo caso con modalità che portano a escludere un inganno del pubblico sulla provenienza. Questo fenomeno si verifica frequentemente per i marchi di origine alimentare e in generale per i prodotti di largo consumo;
• l’uso dei segni allusivi di una provenienza geografica prestigiosa, che però non è direttamente richiamata, cosicché sembra difficile configurare un inganno del pubblico a questo riguardo (in questo caso, più ancora dei marchi, le vittime dell’imitazione sono le denominazioni d’origine, particolarmente accentuato è poi il fenomeno dell’“Italian sounding”, ossia dell’uso di denominazioni che richiamano l’Italia, per beneficiare dell’accreditamento che essa gode nel settore alimentare);
• la copiatura pedissequa della forma dei prodotti, spesso realizzata ricavando gli stampi del prodotto-copia a partire dal prodotto originale.
Per reagire a questa “nuova” contraffazione, si è spesso cercato di dilatare la nozione di confondibilità, in particolare muovendo dalla considerazione che più il marchio è famoso, più facile sarebbe la confondibilità col marchio stesso. Ma è lecito dubitare della correttezza di questo approccio, perché spesso proprio il fatto che il marchio sia famoso porta il pubblico a evitare di confondersi, tanto in presenza di segni non identici quanto in presenza di segni identici, ma usati in contesti tali da escludere la riferibilità al titolare. Non molto più efficace sembra l’approccio che tende a dare rilievo a una supposta confondibilità “in astratto”, dal momento che non chiarisce da che cosa si debba “astrarre”; del resto, a livello comunitario, si è sottolineato come sia necessario tener conto di tutti i fattori del caso concreto per determinare se vi sia o meno confondibilità.
Più interessante è il tentativo, di origine americana, di dar rilievo a fenomeni di “initial confusion”, cioè di confusione in cui il consumatore incorre solo nel suo primo approccio al prodotto e soprattutto, di “post sale confusion”, cioè di confusione in cui incorre non chi effettua l’acquisto, ma chi vede il prodotto-copia nelle mani di chi lo ha acquistato.
Queste forme di confusione non intaccano direttamente la funzione del marchio come indicatore di origine e hanno in comune con la confondibilità “tradizionale” il fatto di sfruttare parassitariamente i valori di avviamento commerciale incorporati nel marchio.
Sembra dunque opportuno ripensare la protezione del marchio come rivolta oggi principalmente contro questo sfruttamento parassitario, che fa leva sull’indebita appropriazione del “messaggio” legato al marchio, concetto in vero non alternativo a quello di confondibilità, ma di cui, piuttosto, la confondibilità rappresenta un caso particolare. Spostando l’attenzione dal solo “messaggio” distintivo al complesso di elementi che il marchio comunica (che possono riguardare non solo la provenienza, ma anche la qualità e le suggestioni), la “nuova contraffazione” può essere combattuta in modo più efficace, sia a livello civile sia a livello penale. Ciò vale sia per la contraffazione del marchio, sia per quella delle denominazioni di origine che, nella recente legislazione, sono protette non solo contro l’inganno pubblico, ma più in generale contro lo “sfruttamento indebito della reputazione della denominazione protetta” (art. 13.1.b del Regolamento n. 92/2081/CEE su DOP e IGP).
Anche per ciò che riguarda le forme dei prodotti, la sottolineatura dell’aspetto parassitario della copiatura assume speciale rilievo e consente di considerare effettiva la violazione non solo quando vi sia confondibilità, ma anche quando l’imitazione sfrutta l’accreditamento sul mercato di cui il prodotto imitato gode. Pure l’aspetto esteriore del prodotto, il già citato look alike, è tutelabile, non solo nell’ipotesi in cui vi sia un pericolo di confusione ma anche quando l’imitazione comporti comunque un effetto di “richiamo” che sfrutta parassitariamente l’accreditamento commerciale del prodotto, determinando un “agganciamento” alla notorietà del prodotto stesso.
Da quanto sottolineato dal Prof. Galli, pare evidente che la legge è in grado di difendere i diritti delle aziende, soprattutto da quando le norme introdotte negli ultimi anni, anche a livello di Comunità Europea, e il Codice della Proprietà Industriale entrato in vigore pochi mesi fa, hanno rafforzato la protezione sia dei segni distintivi, registrati e non, sia delle denominazioni di origine, offrendo alle imprese nuove opportunità per sviluppare e valorizzare la propria attività e per proteggerla da operazioni confusorie e parassitarie.